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Viduquestla

Esistono molte ricerche sulla storia degli scacchi che permettono di indagare i dettagli e le diverse ipotesi sulla loro evoluzione, deducibili dal confronto tra varie fonti: documenti, reperti, iconografie, etc.

 

Un'immagine tratta dal "libro de los Juegos" di afonso X (Sec. XIII)

 

Grazie alla passione che accomuna tutti gli studiosi del settore, che spesso sono portati a collaborare in indagini multidisciplinari con grande onestà intellettuale ed approccio scientifico, è possibile ottenere sempre maggiori informazioni sulla realtà storica che ha lasciato tracce dell'evoluzione di questo gioco.

Nonostante questo, non sempre i resoconti di questi studi sono disponibili a tutti quegli appassionati che hanno interesse ad approfondire la propria conoscenza a riguardo.


Di seguito presento un avvincente analisi di Roberto Cassano dal titolo “I pezzi Shatranj in Italia forme astratte per più di mezzo millennio”.

Tale documento è stato pubblicato nel 2018 sul Yearbook dell'A.S.G.C. .


Ringrazio per la disponibilità l'autore, che ha consentito di divulgarlo, ora, a tutti gli appassionati che seguono questo blog.


Buona lettura!

 

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Come già detto (qui) la dolaora è una corta scure dalla grande lama leggera; uno strumento utilizzato sia per dare forma alle porzioni di legno in lavorazione che per rifinirne le superfici.

 

 

Se di questo utensile esistono diverse varianti con forme e caratteristiche proprie delle diverse tradizioni locali, la dolaora italiana sembra distinguersi per alcune caratteristiche peculiari, tutte interconnesse tra loro, che sono funzionali alla tecnica di utilizzo che l'attrezzo consentiva (leggi qui).

Le testimonianze più dirette relative all'uso di questo specifico arnese ci giungono dal XVIII secolo, ma la particolare forma sembra essersi consolidata antecedentemente ed essere rimasta immutata per molto tempo.

 

Due scuri di età diversa dimostrano che la forma dell'attrezzo è rimasta invariata nel tempo.
 

Non è certo possibile identificare in modo univoco la data di nascita di questa scure, che si sarà sicuramente evoluta lentamente, migliorando pian piano le proprie caratteristiche e di conseguenza le potenzialità d'uso.

Possiamo dire, in base a diversi ritrovamenti, che in epoca romana erano già presenti lame simili, utilizzate come scuri da squadro, ma precise testimonianze delle caratteristiche distintive della dolaora italiana diventano più frequenti in epoca medievale.

Tenendo presente che le proprietà salienti che permettono di identificare questo genere di attrezzo sono:


  • testa a forma prevalentemente rettangolare, immanicata tramite un corto collo posto al centro del ferro,

  • profilo della lama curva che porta ad una forma convessa della faccia che lavora a contatto col legno,

  • manico fortemente disassato bloccato tramite un cuneo removibile all'interno dell'occhio collocato esternamente alla sezione di legno del manico,

  • occhio trapezoidale nella forma più tradizionale dotato di “alette” che permettono una maggior aderenza della combinazione manico/cuneo,

la maggior parte delle rappresentazioni pittoriche risultano di poco interesse, arrivando a testimoniare al più l'utilizzo di strumenti dall'aspetto generale molto simile a quello descritto.

Attraverso queste iconografie si può appurare soltanto che in epoca medievale esistevano scuri leggere dotate di lama molto larga e maneggevole, che permettevano di essere utilizzate servendosi di una sola mano, grazie anche alla presenza di un corto manico.

In A, particolare di un manoscritto del nord d'Italia del XIV secolo (oggi conservato nella Mediatheque d’Arras, ms 252, f.95v.; 

in B particolare tratto dagli statuti della sociatà dei falegnami di Bologna 1248 - 1298, Archivio di Stato di Bologna, Codici Miniati, numm. 1, 2, 5.;

in C particolare della Bibbia Istoriata padovana, ms 212, Genesi, c. 4v, Biblioteca dell''Accademia dei Concordi, Rovigo;

in D  particolare della insegna dei remèri del 1517 (restaurata nel 1619 e nel 1730 senza sostanziali modifiche all'impianto originale), Biblioteca del Museo di Correr di Venezia, classe I, 2100.


 

In pratica esse ci confermano la presenza di attrezzi che rispondono al massiomo al primo dei requisiti sopra citati, senza fornire ragguagli sui successivi.

Ricordando che proprio gli altri tre sono quelli maggiormente significativi riguardo la peculiarità di questa scure, occorre sottolineare quanto essi siano legati tra loro: la lama curva permette un particolare uso grazie alla leva fornita dal manico fortemente disassato, ma nel contempo rende più difficoltosa l'operazione di affilatura per la quale si rende necessario rimuovere l'ingombro fornito dal manico che per questo è fissato con un cuneo esterno.

Antonio Vivarini, “San Pietro martire guarisce la gamba di un giovane”,XV sec., The Metropolitan Museum of Art, New York, inv. 37.163.4


 

Proprio per questo trovo molto interessante la raffigurazione dell'attrezzo di Antonio Vivarini nel dipinto su tavola “San Pietro martire guarisce la gamba ad un giovane” dove si può vedere la scure, dipinta in modo particolareggiato, abbandonata a terra.

Nella dolaora rappresentata si vede chiaramente il cuneo che, posto all'interno dell'occhio, garantisce l'aderenza della testa col manico che, nonostante l'assenza delle alette di supporto, doveva essere pertanto della tipologia removibile.

Altri indizi che possono suggerire particolari interessanti riguardo un uso così remoto della dolaora italiana ci giungono dai bassorilievi del XIII secolo che si trovano a Venezia.

Nell'arcone dei mestieri, che caratterizza il portale maggiore della Basilica di San Marco per esempio, nella sezione dedicata all'arte dei segatori, è rappresentata una scure da squadro di questa tipologia: il manico dell'attrezzo è chiaramente di sezione rettangolare e questa caratteristica ci suggerisce l'idea che anche l'occhio presente nella testa di metallo fosse realizzato in quella forma.

 

Portale Maggiore della Basilica di San Marco di Venezia (XIII sec.)

Ancora più sorprendente è la scultura presente sul Capitello dei carpentieri di Palazzo Ducale, sempre a Venezia, nel quale viene rappresentato un artigiano nell'atto di squadrare, o rifinire, una trave di legno.

Sulla grossa testa dell'utensile che sta utilizzando è possibile notare non solo la sezione rettangolare del manico ma anche la presenza delle alette che possono servono ad aumentare la superficie di contatto tra cuneo removibile e ferro.

Particolare del Capitello dei carpentieri di Palazzo Ducale, Venezia (XIII sec.), in due scatti: a sinistra la foto di G. Sebesta su gentile concessione del Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di S. Michele all'Adige (TN), a destra una foto più attuale.
 

Per fortuna esiste una vecchia fotografia (scattata da Sebesta G. e pubblicata ne “La via del Legno”, edito dal MUCGT di S. Michele all'Adige) di questa scultura che, a causa dell'usura, oggi sembra aver perso proprio quei particolari che sono, dal nostro punto di vista, più interessanti.

Nel capitello di palazzo Ducale ci colpisce ancor di più la postura china del carpentiere rappresentato che sembra voler proprio sfruttare al meglio la potenzialità data dalla particolare lama convessa.

Esso non solleva la scure per usare l'impeto cinetico dato dal movimento dell'attrezzo dall'alto, ma sembra lavorare di lato, a stretto contatto col legno; non ci può sfuggire, a questo riguardo, la gamba dell'artigiano il cui interno del ginocchio si appoggiata all'estremità del manico e sembra aiutare lo sforzo delle mani usufruendo della leva fornita del manico disassato.

Potrebbe essere in effetti una rappresentazione tridimensionale della stessa tecnica descritta da Griselini cinque secoli più tardi?

Al di là di quelle che possono essere solo suggestioni personali, la memoria mi porta ad un'altra raffigurazione simile in cui il ginocchio dell'artigiano, in questo caso addirittura seduto sulla trave in lavorazione, sembra voler fornire supporto all'azione: si di tratta un'immagine della Bibbia Istoriata Padovana del XIV secolo che riporto.

 

Particolare della Bibbia Istoriata padovana, ms Add. 15277, Esodo, c. 15v, British Library, Londra.


 

Attraverso posizione e forma del manico, è possibile supporre che attrezzi rappresentati avessero già la caratteristica più emblematica della dolaora: la lama leggermente curvata.

Tale partiolare del resto è riscontrabile anche nelle teste dell'epoca, giunte fino a noi, purtroppo, prive di manico, vista la facile deperibilità del materiale.


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Il gioco degli scacchi in epoca medievale, era diffuso, conosciuto ed apprezzato in diversi ceti della società dell'epoca.

 

Dell'estensione di questa passione esistono, infatti, molteplici testimonianze scritte; senza dover rintracciare citazioni troppo eterogenee tra loro, possiamo rendercene conto dalla semplice lettura delle Novelle III, LXVIII e CLXXXIV del Trecentonovelle di Franco Sacchetti. 

 

Attraverso questi racconti possiamo incontrare, nel ruolo di giocatori di scacchi, rispettivamente: Re Edoardo I d'Inghilterra, il poeta fiorentino Guido Cavalcanti ed un piovano di campagna che gioca con un esponente della nobiltà locale; si tratta di quattro figure completamente differenti tra loro, le loro vicende ci confermano perciò la straordinaria trasversalità con la quale il gioco si diffuse rapidamente a tutti i livelli.

Una così ampia diffusione sicuramente avrà richiesto di produrre pezzi di qualità differente, diversi nell'aspetto, nella foggia, nel pregio della manifattura o nella ricchezza dei materiali utilizzati.


Nella maggior parte dei casi, purtroppo, gli scacchi più poveri, quelli fatti per essere utilizzati quotidianamente, erano realizzati in materiale deperibile (legno) e, non trattandosi di preziosissime opere d'arte destinate ad essere esposte nelle residenze di signori e sovrani, sono andati perduti senza quasi lasciare traccia di se'.

 

Volendo immaginare la forma di questi modesti pezzi che si contendevano la vittoria sulle scacchiere medievali si incappa in un ulteriore difficoltà data dal fatto che ci si trova in un periodo di transizione in cui la stilizzazione degli “shatranj” arabi (leggi qui) cedeva gradualmente il passo alla tecnica della tornitura che avrebbe permesso più avanti, in età rinascimentale, di perfezionare sagome affusolate dai profili eleganti e slanciati (leggi qui).


A questi nuovi pezzi ci si arrivò gradualmente ed è lecito immaginare che per lungo tempo convissero scacchi più o meno ricchi, che erano caratterizzati dai primi interventi di lavorazione al tornio e che mantenevano integri gli aspetti salienti di quelli in foggia araba; cosa che permetteva ai giocatori una immediata identificazione dei vari ruoli.

 

Diverse testimonianze storiche ci portano all'interpretazione di questi scacchi che sembrano essersi attestati su forme paragonabili a quelli rappresentati sul Manoscritto 2871, conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze, che è stato datato tra il 1380 ed il 1410. 

 

Nel codice vengono rappresentati Cavalli caratterizzati da una sola sporgenza frontale mentre gli Alfieri conservano il ricordo delle zanne d'elefante con i loro due risalti sul davanti; entrambi sono privi del piede tornito che caratterizza altri pezzi.

Nel Re, al contrario, è ben identificabile la base tornita simile a quella delle torri.

Queste ultime presentano due prominenze sommitali curve, che, poste lateralmente, sporgono verso l'alto arricciandosi poi all'ingiù (Forma che è presente anche nei rocchi rappresentati negli stemmi araldici medievali di diverse famiglie nobiliari italiane).


L'aspetto degli scacchi appena descritti è proprio quello dello straordinario set di pezzi esposto a Villa Villoresi (ex Prato Della Tosa) di Colonnata, frazione del comune di Sesto Fiorentino. 

Gli scacchi di Villa Villoresi originali a confronto con la replica da noi curata.
 

Gli scacchi, realizzati in legno di bosso, fanno parte di una collezione di oggetti di provenienza archeologica di epoca medievale e romana; si tratta di elementi trovarti in loco e conservati nella villa aperta al pubblico in quanto oggi è stata trasformata in un prestigioso albergo.

Nonostante manchino dati certi per una precisa datazione per questo set, diverse congetture li fanno risalire ad un periodo compreso tra la fine del XIII e quella del XIV secolo.

In quel periodo la villa era adibita a fortilizio ed un susseguirsi di eventi bellici causò la ripetuta distruzione della torre ai piedi della quale sembra essere avvenuto il ritrovamento dei pezzi.

Si è portati a credere, infatti, che si sia trattato degli scacchi in dotazione al corpo di guardia chiamato a presidiare il fortilizio, persi in occasione di uno degli assalti storicamente documentati avvenuti nell'arco del secolo che va dal 1260 al 1360, circa.

La replica degli scacchi torniti in fase di lavorazione prima degli interventi d'intaglio
 

Gli scacchi di Villa Villoresi sono in un eccellente stato di conservazione, il legno è stato lavorato al tornio ed i pezzi finiti con semplici interventi d'intaglio, piuttosto sbrigativi e grossolani.

L'intaglio di una torre
 

A distinguerli da oggetti più pregiati, in cui prevale la componente artistica, concorre il fatto che entrambe le formazioni sono realizzate nello stesso materiale, il bosso, tinto successivamente per creare la formazione dei pezzi “neri”.

Sappiamo che all'epoca, nonostante perdurasse l'usanza di tingere i pezzi neri, gli scacchi realizzati in essenze differenti erano considerati più preziosi, proprio perché non tendevano a scolorire con l'usura causata dal loro utilizzo.

Tra i vari pezzi ritrovati che sembrano appartenere allo stesso set se ne aggiungono due di fattezza più curata, si è portati a credere che si tratti degli unici scacchi ritrovati di un secondo set.

La ricostruzione dei due pezzi "estranei".

La straordinaria importanza dell'insieme, in questo caso, non e data dalle lavorazioni di pregio ma proprio da questa manifattura “povera” che ci testimonia lo schietto proposito ludico che caratterizzò il confezionamento di tali oggetti.

A mio avviso il fascino di questi reperti, infatti, sta proprio nella sua sostanziale semplicità e risiede in tutti quei particolari aspetti delle usanze ludiche del periodo che un simile manufatto è in grado di richiamare e testimoniare.


 

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La tecnica per la costruzione di verrette da balestra che ho ipotizzato in un mio recente post (leggi qui) mi è stata suggerita dal reperto di un particolare attrezzo rinvenuto nel relitto della Mary Rose, una nave da battaglia inglese che affondò nel tratto di mare compreso fra l'Isola di Wight e la terraferma il 19 luglio 1545. 

Il relitto è stato successivamente recuperato ed al suo interno sono stati rinvenuti diversi oggetti di uso quotidiano; il loro studio ci può suggerire vividi ragguagli sulla vita a bordo su un vascello da guerra di quell'epoca.

Tra i diversi oggetti ritrovati spiccano alcune pialle ed in particolare due, molto piccole, caratterizzate da una sottile suola di forma concava, hanno attirato la mia attenzione.

 

Sembrerebbero, infatti, proprio nate per arrotondare stecche di legno allo scopo di ottenere dardi e frecce.

 

Per attuare la tecnica descritta nello post dedicato alle frecce ho utilizzato attrezzi la cui esistenza è sicuramente attestata in periodo medievale, fatta eccezione per il passaggio finale per il quale ho usato una sponderuola con lama curva, realizzata da me, in vece di una pialla simile a quelle di cui sto parlando, decisamente più attendibile, storicamente, per quanto tarda .

 

Di uno dei reperti della Mary Rose, in effetti abbiamo fatto una replica, tempo fa. 

La prova di utilizzo della nostra replica


Testandola si è evidenziato come essa potesse essere adatta all'arrotondamento di corpi per frecce del diametro più piccolo rispetto a quello scelto per le munizioni da balestra che ci era stato chiesto di realizzare. 
 

Dovendo quindi ricorrere giocoforza ad un attrezzo differente per dimensioni, abbiamo optato per una sponderuola, confidano nella sostanziale maggior semplicità di realizzazione dell'attrezzo, visto che il nostro scopo principale era quello di ottenere i cilindri per le verrette.

 

Ecco di seguito, invece, il lavoro di ricostruzione del pialletto della Mary Rose che abbiamo realizzato anni fa in legno di bosso, come l'originale.

 

Il corpo della pialla in lavorazione confrontato con il disegno in scala 1:1 dell'originale

La suola concava a raffronto col disegno dell'originale

L'inizio dello scavo della gola

La gola finita

La posizione della bocca a raffronto con i disegni dell'originale
Il profilo della pialla a confronto con la sezione dell'originale

Le proporzioni della lama, ricavata dalla forma del ceppo che la ospiterà

La suola della replica finita con la lama inserita

Una prova di utilizzo

La replica del pialletto





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Mi sono chiesto in più occasioni quale fosse la procedura seguita in epoca medievale per la realizzazione delle aste in legno che componevano frecce, bolzoni, verrette ed altri dardi di questo tipo.

 

Aste per frecce realizzate a mano. Sulla destra vari passaggi di costruzione.
 

La documentazione pervenutaci ci parla di cospicue commesse, per diverse milizie, di svariate decine (a volte centinaia) di migliaia di pezzi.

Si trattava di munizioni di abbondante consumo durante le normali funzioni di un esercito dell'epoca ed i grandi numeri dei rifornimenti, quindi, sono ben comprensibili.

Mi immagino quindi, organizzata, una grande industria manifatturiera atta alla creazione di simili proiettili, con diverse fasi di lavorazione, condotte in modo seriale nel tentativo di abbattere i costi di produzione senza influire sulla qualità finale del prodotto, che doveva avere precise caratteristiche costruttive.

Credo che fosse importante sviluppare il corpo delle frecce lungo le fibre del legno, in modo da ridurre al massimo la presenza di venature trasversali, potenziali punti di frattura che avrebbero potuto rendere troppo fragile, e conseguentemente pericolosa, la struttura del dardo, soggetto a notevoli sforzi durante la fulminea spinta esercitata dall'arma nell'istante dello scocco. 

Il fusto di una freccia lavorato lungo le venature.
 

La scelta del materiale di partenza quindi avrà sicuramente giocato un ruolo fondamentale, proprio per garantire, con lavorazioni veloci, un risultato ottimale.

Si saranno dovuti scegliere, quindi, tronchi, o porzioni degli stessi, particolarmente dritti, di alberi caratterizzati da una buona postura e chiome simmetriche che garantivano una disposizione delle fibre omogenea e ben distesa, senza tratti nervosi, caratteristici al contrario in alberi dallo sviluppo più controverso e problematico.

Le criticità nascoste tra le fibre di questi ultimi, si sarebbero certo potute domare ma solo pagando il prezzo di lavorazioni più lunghe e complesse, cosa che avrebbe, per così dire, inceppato i processi della fabbricazione, aumentando il costo dei pezzi finali la cui qualità comunque sarebbe stata discutibile.

Indubbiamente l'approvvigionamento di pezzature di legname adatto era ben organizzato, grazie alla conoscenza del territorio, alla presenza di mercanti che sceglievano i tronchi in base alle esigenze della loro committenza e alla caratteristica delle macchie boscose di produrre principalmente alberi con le medesime qualità dettate principalmente da clima, posizione e propensione genetica.


Ecco quindi un'ipotesi, testata sperimentalmente, dei vari passaggi di lavoro necessari per ottenere velocemente il corpo di munizioni per una balestra.

 

 

Ho ottenuto aste delle dimensioni volute operando inizialmente mediante fenditura (ho optato per un fenditoio, per dividere inizialmente i pezzi, lavorati in un secondo momento grazie all'azione di un'accetta). 

 

Le fasi di spaccatura delle stecche ed i primi pezzi ottenuti.
 

Le stecche così ottenute, per quanto dritte potessero essere le fibre, avevano forme irregolari e storte, è stato quindi opportuno procedere alla rettifica delle stesse attraverso l'azione di una scure da lato.

 

L'irregoralità della linea di fenditura che segue l'andamento delle fibre

Ho prima segnato le stecche in modo da ottenere superfici dritte il più possibile parallele alle fibre del legno ed ho poi seguito le linee tracciate operando con la scure.

La traccia da segiure per ottenere stecche dritte con superfici in aquadra.
 

Questa è indubbiamente la fase più critica del lavoro, quella che richiede maggior concentrazione e pazienza.

 

L'operazione di squadratura.

 

Le prime stecche squadrate e rettificate.

Una volta ottenute le stecche rettificate e squadrate ho operato con una sponderuola a lama curva appositamente approntata per rendere cilindrico il corpo della freccia.

 

La sponderuola utilizzata.

 

Il supporto per tenere ferma la stecca in lavorazione è costituito da una semplice tavola con un intaglio. La sua tendenza a riempirsi di trucioli e segatura avrebbe reso preferibile la presenza di una fessura passante da utilizzare per liberare l'incavo.

La sponderuola in uso.
 

La superficie di un'asta ottenuta col metodo descritto (in mezzo) a confronto con altre due ottenute col più laborioso utilizzo di un coltello a due manici.
 

Il risultato finale, assieme ai semilavorati di ogni operazione descritta si può vedere nelle prime immagini del post.

 

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No, non si tratta della cronaca di una partita svoltasi tra i due geni, grandi protagonisti del Rinascimento italiano, bensì di alcune riflessioni sulla paternità dei disegni degli scacchi rappresentati nel trattato “De ludo scachorum” di Luca Pacioli.

Una ricostruzione di scacchi ispirati al disegni del trattato di Luca Pacioli

Trovo la storia di questo manoscritto “Sul gioco degli scacchi” particolarmente avvincente.

Il trattato, omaggio alla marchesa di Mantova Isabella d'Este, è stato creduto perduto per lungo tempo e la sua esistenza era attestata solo attraverso un paio di carteggi antichi che lo citavano.

Primo fra tutti compare un richiamo in una lettera dedicatoria del “De viribus quantitatis” dello stesso Autore che cita uno “[...] iocondo et alegro tractato de ludis in genere cum illicitorum reprobatione spectialmente di quello de scachi in tutti i modi detto schifanoia et alle excellentia dal segnoir Marquese et Marchegiana di mantoa Francesco go'zaga e' Isabela extense' a quelii dedicato [...]”.

Questo scritto del 1496 allude evidentemente ad un più ampio libro dedicato ai giochi, forse ancora in fase di stesura, che doveva comprendere anche un trattato sugli scacchi.
 

La seconda citazione datata 29 dicembre 1508 è più precisa a riguardo e testimonia l'esistenza di un testo autonomo dedicato al solo gioco degli scacchi.
Si tratta di una missiva rivolta all'allora Doge di Venezia Leonardo Loredan in cui Luca Pacioli chiede, oltre alla ristampa della sua “Summa”, il privilegio di vedere stampati anche i suoi trattati “De divina proportione”, “De viribus quantitatis”, “Euclide” ed il “De ludo scachorum”.

Poi del documento non si seppe più nulla per quasi 500 anni.


Nel dicembre del 2006 il bibliologo Duilio Contin, grazie alla sua familiarità con la grafia dell'Autore, riconosce, custodite assieme ad altri libri e documenti storici dalla Fondazione Coronini Cronberg di Gorizia, le 48 carte autografe che compongono l'opera sugli scacchi di Luca Pacioli.

Si tratta di 96 pagine in cui vengono presentati 114 “partiti” di cui 87 giocati alla vecchia maniera (con le regole di gioco medievali) e 27 con le nuove regole “a la rabiosa” (quelle che conosciamo anche oggi).



I disegni che arricchiscono la descrizione delle 114 situazioni di gioco rappresentano una scacchiera sulla quale si muovono, stilizzati, scacchi rossi e neri.

Su questi disegni, appunto, circola la voce, non confermata ne' smentita, che siano opera di Leonardo da Vinci, che in quegli anni era in effetti in contatto con Luca Pacioli.
Leonardo collaborò per lungo tempo col matematico per i quale fece i disegni dei poliedri e sviluppò la forma di nuovi caratteri capitali; entrambi lavori che compaiono nel “De divina proportione” di Pacioli.


La cosa è possibile, quindi, soprattutto tenendo presente il periodo di durata di questa collaborazione è lo stesso in cui, in base alla data dei carteggi sopra descritti, si sviluppò anche il trattato sugli scacchi.
I due si conobbero a Milano nel 1496 ed il “De divina proportione”, che contiene il frutto del loro lavoro comune, venne stampato nel 1509.
Bisogna considerare, del resto, che tra le molteplici testimonianze relative alla loro collaborazione, scritte di loro pugno, non v'è cenno alcuno al disegno degli scacchi.


Luca Pacioli ribadisce nel De viribus quantitatis: “ […] ne fo discorso con le supraeme et legiadrissime figure de tutti li platonici et mathematici corpi regulare et dependenti che in prospectivo disegno non è possibile farli meglio, […] facte et formate per quella ineffabile senistra mano [...] del prencipe oggi fra' mortali pro prima fiorentino Lionardo nostro da Venci, in quel foelici tempo che insiemi a' medesimi stipendii nella mirabilissima città di Milano ci trovammo”.

Ancora: “ […] in quello che facemmo della 'Divina Proportione' alla excellentia dal Duca de Milano Ludovico Maria Sforza, apieno provano, e suo effecto largamente manifesta l'opera del nostro Leonardo Venci, compatriota fiorentino, quando con tutta forza feci in ditto libro de sua gloriosa mano li corpi mathematici […]


Anche nel “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci, del resto, si trovano diversi riferimenti ai lavori di Luca Pacioli; alcuni disegni e schizzi tracciati da Leonardo rappresentano problemi e giochi proposti dal matematico nel “De viribus quantitatis” e tra le tante 'citazioni' spicca la nota: “Impara da maestro Luca la moltiplicazione della radice”.

Tra tutte queste attestazioni di stima reciproca, in cui vengono più volte menzionati i lavori fatti in comune, in ogni caso, dei disegni degli scacchi non si fa cenno.

Il fatto che le illustrazioni degli scacchi in questione non fossero una rappresentazione fittizia e grafica, ma la resa bidimensionale di scacchi reali, realizzati al tornio, del resto, sembra trovare precise conferme in rappresentazioni pittoriche coeve, in cui i pezzi ricalcano le forme tracciate sul trattato di Luca Pacioli.

Un particolare degli scacchi disegnati sul manoscritto di luca Pacioli a confronto con altre rappresentazioni prese dal manoscritto "Regnault de Montauban" della seconda metà del XV secolo (Bibliothèque de l'Arsenal, Ms-5073, Paris, p, 15 recto)

Ci piace pensare che scacchi di questa foggia siano esistiti veramente e, con la collaborazione del rievocatore e ricostruttore Juergen Gaebel, abbiamo interpretato i disegni per realizzare un set di scacchi.

Le foto di tale lavoro fanno da corredo a questo post.

Scacchi in lavorazione

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