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Viduquestla

 

Con il termine quartabuono, in falegnameria, si intende una squadra di legno, a triangolo rettangolo, che consente di tracciare o ricavare precisi angoli di ampiezza determinata.

 

 

L'utilizzo è quindi paragonabile a quello di una falsa squadra che, in tempi più recenti, con le due braccia unite a snodo come in un compasso, permette di tracciare una più ampia gamma di angoli definiti.

 

La falsa squadra, un attrezzo utilizzato in falegnameria tradizionale

L'impiego di uno strumento semplice come il quartabuono ha sicuramente origini antichissime e ne troviamo testimonianza diretta in diversi documenti di epoca rinascimentale.

 

Alcuni attrezzi rappresentati sul pavimento della bottega di San Giuseppe: un'ascia, un truschino ed un quartabuono, particolare de "L'infanzia di Cristo, nella bottega del falegname" di Hans Bol, 1534-93.

Un'immagine del “Trattato delle fortificazioni di terra” del XVI secolo, nello specifico, permette di dedurre un uso del quartabuono particolare che ci consente di paragonarlo ad un altro utensile molto arcaico.

 

Un quartabuono utilizzato per conficcare nel terreno delle stecche con l'inclinaziane voluta, particolare del  "Trattato delle fortificazioni di terra" di Giovan Battista Bellucci da San Marino, Sec XVI, Ricc. 2587, c 27v.

In pratica, dall'unione della squadretta di legno con un filo a piombo, si viene a costituire un arnese simile all'archipendolo nel funzionamento; così facendo si riescono ad ottenere angoli precisi rispetto alla linea verticale tracciata dal filo.

 

Un archipendolo, oltre ad essere utilizzato per verificare lo stato di bolla di un piano, attraverso alcune tacche sulla sua base può essere impiegato anche per verificare particolari inclinazioni

Rispetto all'archipendolo (una squadra a triangolo rettangolo isoscele, dotata di filo a piombo che si poggia alle estremità dei due lati uguali per verificare che un piano sia in bolla) il quartabuono ci permette di verificare la costanza della pendenza di particolari parti di una struttura.

 

Ipotesi di utilizzo di un quartabuono per mettere in bolla il raggio di una ruota montato sul mozzo; realizzando il successivo foro per i raggi, dall'alto verso il basso (vedi freccia), permette di verificare l'ortogonalità tra i vari raggi.

Un quartabuono utilizzato per disporre il raggio di una ruota a trenta gradi; realizzando il successivo foro per i raggi dall'alto verso il basso permette di disporli con un angolo di sessanta gradi.

Ovviamente per ottenere angoli diversi occorrerà avere un quartabuono adatto ad ogni singola circostanza, ma una serie di linee, usate per traguardare il filo a piombo possono adattare questa semplice squadretta ad usi differenti.

Due quartabuoni con diversi angoli contrassegnati sulla superficie; essi permettono di verificare, con l'aiuto di un filo a piombo, angoli di 36°, 45°, 60° e 90°

 


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Le asce simili a quelle di foggia medievale che uso normalmente sono state acquistate in diversi mercatini d'antiquariato.

 

Generalmente le restauro rispettando la loro storia e tendo ad immanicarle ricostruendo un'impugnatura nuova della stessa forma di quella originale danneggiata o inutilizzabile.

Sostituzione del manico di una vecchia ascia
 

Questo comporta, ovviamente, la consapevolezza di ottenere un risultato non del tutto adatto agli scopi rievocativi.

La struttura dell'attrezzo, composto da una lama smontabile fissata al manico mediante ghiera e cuneo (leggi qui), sembra essere la stessa, ma la forma e la foggia dell'attrezzo sono lievemente differenti dalle sue rappresentazioni di epoca medievale.

La discordanza più visibile è indubbiamente l'estensione del manico che nelle asce rappresentate in diverse opere medievali è molto più lungo e mostra una caratteristica forma flessa di difficile interpretazione.

L'utilità di un manico più corto è immediatamente comprensibile: si elimina l'ingombro dato dalla porzione che si viene a trovare oltre il punto di impugnatura ottenendo un attrezzo più maneggevole adatto a lavorare anche in spazi angusti (all'interno di ciotole o in stretti pezzi di forma concava).

Che scopo potesse avere un manico così lungo non è altrettanto intuibile.

Escludendo a priori l'utilità di sventagliate potenti che sarebbero ottenibili utilizzando la leva del manico, sono portato ad ipotizzare che potesse fornire un vincolo in appoggio per ottenere maggior precisione in certi tipi di lavorazione (con tecniche assimilabili a quella descritta qui).

L'occasione per provare a lavorare con attrezzi più conformi agli standard medievali mi è stata fornita da un paio di teste d'ascia rinvenute, come al solito ad un mercatino, in una cassetta di vecchi ferri arrugginiti; le lame erano pressochè irriconoscibili e prive di manico e ghiera.

In uno dei due casi, per dotarle la testa di un adeguato anello metallico che fungesse da vincolo con il manico in legno mi sono ispirato ad un ritrovamento della mia zona: un'ascia basso-medievale rinvenuta nel fiume Adige, in prossimità di Legnago, oggi conservata assieme ad altri attrezzi nella Casa-Museo della Fondazione Fioroni di Legnago (di cui ho parlato anche qui).

La testa originale rinvenuto nelle acque dell'adige, oggi custodita nella Casa-Museo della fondazione Fioroni (foto scattata da Cesare Paganini, pubblicata su gentile concessione dello stesso)

 

Nell'altro caso mi sono ispirato, pur mantenendo le proporzioni dell'originale appena citato, ad una raffigurazione che compare nel "Cristo spogliato sul Calvario", quadro del 1505 conservato alla Pinatoteca Nazionale di Siena (segnalatomi dall'amico Andrea Carloni).

La ricostruzione realizzata da me a confronto con l'attrezzo rappresentato nel dipinto "Cristo spogliato sul Calvario", attribuito ad un collaboratore di Francesco di Giorgio Martini, proveniente dalla Basilica dell'Osservanza di Siena. (Ringrazio per la segnalazione e per la foto Andrea Carloni).

 

Rifatte le ghiere (molto strette e lunghe, rispetto a quelle di tradizione più “moderna”), si trattava di ricostruire il manico in legno.

Confronto tra la foto dell'originale e la testa con la ghiera rifatta da me

 

Ho subito constatato la difficoltà ad interpretare la curva flessa del lungo manico, tentando di ricavarne la forma interpretando diverse iconografie dell'epoca.

Alcune iconografie di epoca medievale:

A - Particolare della rappresentazione di Gesù con suo padre Giuseppe, manoscritto del XIII secolo, 1250-1300, Italia, BNF Latin 2688.

 B - Particolare dell'affresco “la costruzione dell'arca di Noè”. Camposanto di Pisa, Italia, dipinto da Pietro di Puccio alla fine del XIV secolo.

C - Particolare dell'affresco raffigurante Gesù e Maria nella bottega di falegname di Todisco G., San Giuseppe, Diocesi di Acerenza (1559).

D - Particolare dei decori della Cattedrale di Teruel in Aragona, Spagna del 1171.

 


 

Occorreva tenere presente lo stile artistico delle opere e la possibile mancanza di conoscenze specialistiche degli autori, il cui scopo non era certo quello di rappresentare, in modo realistico, questo strumento in particolare.

Sfogliando diverse rappresentazioni di differenti periodi, ho avuto la crescente contezza che nelle raffigurazioni dell'epoca il cuneo frontale, usato per garantire solidità al vincolo manico-testa, fosse del tutto mancante.

Un'ascia tradizionale con il classico cuneo frontale che assicura l'aderenza tra testa e manico.

 

Risulta possibile che un simile particolare non fosse degno di nota o che, per semplici lacune culturali dei pittori, esso non sia stato rappresentato, ma è altrettanto plausibile che la forma stessa del manico fornisse l'aggancio essenziale a garantire il vincolo.

Ulteriori informazioni, in questo senso, mi sono state fornite da alcune rappresentazioni scultoree eseguite in legno; particolare che garantisce l'assoluta competenza dell'autore sulle varie caratteristiche degli attrezzi atti a lavorare questo materiale, come l'ascia in questione.

Tre rappresentazioni di asce sulle colonne lignee intagliate della spalliera del mobile di sagrestia dell'abbazia d S. Maria in Organo (VR). (ringrazio per la foto e per la disponibilità l'amico Giampietro Costanzi).

 

Si tratta, in particolare, di colonnine scolpite, facenti parte della spalliera dell'armadio della sagrestia nell'abbazia Veronese di S. Maria in Organo (della cui segnalazione e foto ringrazio l'amico e collega Giampietro Costanzi).

L'armadio è stato eseguito da Frà Giovanni da Verona, magister lignarius nato intorno al 1457.

L'opera, che è considerata il suo capolavoro, fu realizzata tra il 1519 ed il 1523 con l'ausilio del maestro Stefano da Milano e del giovane intagliatore veronese Francesco.

Il manufatto ligneo è composto da 10 comparti, con preziosi intarsi, divisi tra loro da colonnine binate che sorreggono altrettanti archi.

Proprio sull'estremità inferiore di queste colonnine, riccamente decorate ad intaglio, sono rappresentati diversi arnesi appartenenti a differenti mestieri: tra i tanti utensili definiti in modo particolareggiato spiccano alcune asce.

La loro effigie, riportata in diverse posizioni nella composizione, permette di vederle da diverse angolazioni, rendendo evidente la completa mancanza del cuneo di fissaggio e la particolare forma flessa del manico.

 



Ho quindi realizzato le impugnatura dell'ascia secondo quanto rappresentato negli intagli lignei, ottenendo, credo, delle ricostruzioni plausibili dell'attrezzo dell'epoca.



Non resta quindi che testarle sul campo, utilizzandolo per i prossimi lavori.





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Questa tipologia di pettini è in uso dall'antichità fino a tempi relativamente recenti e deve la sua denominazione alla particolare forma.

 

 

Su una superficie sostanzialmente rettangolare si vanno a realizzare due file di denti contrapposti: la struttura solida del pettine, quindi, prende la forma della lettera H.

 

In questi particolari oggetti uno dei due lati presenta denti più grossi è radi ed è quella che possiamo ipotizzare venisse utilizzata per pettinare i capelli.

 

 

L'altro lato, incredibilmente fitto, veniva utilizzato per la pulizia della chioma dai parassiti.

 


Diversi ritrovamenti testimoniano, infatti, come la particolare serie, così folta, potesse arrivare a rimuovere uova e lendini dai capelli preservandone, a distanza di secoli, ancora tracce tra la dentatura.

Viene logico, pertanto, ipotizzare che l'impiego della chimica, con funzione antiparassitaria, abbia sostanzialmente relegato questi oggetti a ruoli man mano più marginali fino a farli uscire del tutto dal nostro quotidiano.

 


 

Se i più antichi ritrovamenti ci testimoniano l'utilizzo di materiale organico come corno, avorio e osso, in tempi più recenti si moltiplicano i casi di pettini realizzati in legno.

Quale che sia il materiale utilizzato questi reperti ci restituiscono la testimonianza di una grande abilità manifatturiera data la difficoltà di realizzare le lunghe sequenze di tagli paralleli necessari a formare le due file di denti.

 

 

Replicare la fila di tagli sul lato più rado, può già, presentare notevoli difficoltà e richiede applicazione e pratica, ma è tutto sommato fattibile.

Il vero mistero è come riuscire a realizzare il lato più fitto, per fare il quale, non occorre semplicemente assottigliare i denti ravvicinando le divisioni che ne delineano la forma, ma occorre effettuare dei tagli di larghezza infinitesimale per operare i quali è difficile reperire lame seghettate sufficientemente sottili.

 


Alla prova pratica lo spessore di una lama di 0,3 mm ottiene tagli grossolani e non sufficientemente sottili, e, per ottenere una dentatura scorrevole e liscia occorre poi applicarsi in altri passaggi di levigatura sulla superficie interna dei denti, andando ad aumentare ancora l'intervallo che li separa.

 


 

Le lame in questione risultano tra l'altro estremamente fragili e, quando si passa a lame di spessore inferiore (difficilissime da reperire) basta un movimento inappropriato durante il taglio di queste infinite serie per mandare la lama in frantumi.

 

 

Insomma, ancora una volta siamo di fronte alla testimonianza delle altissime abilità degli artigiani dei tempi passati, che ebbero modo di sviluppare tecniche e processi lavorativi in condizioni di sviluppo continui.

 


Noi abbiamo tentato di emulare alcuni dei loro lavori ed i risultati si possono vedere nelle immagini qui pubblicate.

 


 

 

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L'aggettivo “laminato” in questo caso viene designato a definire un corpo costituito da sottili strati sovrapposti.

 

 

Reperti di scudi realizzati in questo modo, in Italia, ci giungono da diverse epoche del passato, da quella Classica fino al Rinascimento compiuto.

Ovviamente più indietro si va nel tempo e più le testimonianze si fanno rade, ma è ben attestato l'uso di lastronature di legno, impiegate già nell'antichità, anche per realizzare pezzi di arredo che potremmo definire “impiallacciati” con superfici intarsiate.

Le lastronature in questione sono sottili tavolette di legno tagliate dello spessore dell'ordine di qualche millimetro; proprio questa loro caratteristica le distingue dai piallacci veri e propri (utilizzati in tempi più moderni) che hanno spessori inferiori al millimetro.

L'utilizzo di lastronature ci testimonia un'elevata capacità tecnica delle maestranze di epoca romana che riuscivano ad ottenere queste particolari sottili porzioni di legno, consentendo diversi vantaggi nella realizzazione di varie tipologie di manufatti.

L'utilizo di lastronature per ricostruire la struttura di uno scutum romano.
 

Nel caso degli arredi, per esempio, ricorrere a questa tecnica dava la possibilità di ridurre lo spreco del prezioso materiale in uso, permettendo l'utilizzo di alburno per la realizzazione di mobili che potevano poi essere ricoperti con i sottili strati di durame.

In assenza di questa tecnica l'alburno, meno pregiato e più soggetto all'attacco di muffe e parassiti sarebbe stato scartato e l'intera struttura del mobile si sarebbe dovuta realizzare in durame di valore, con uno spreco di materiale eccessivo.

Nel caso degli scudi, l'utilizzo di lastronature permetteva di sovrapporre più strati di legno con orientamento delle venature incrociato, in modo da ottenere manufatti più resistenti, elastici e meno soggetti a spaccature e fenditure rispetto a quelli realizzati con semplici doghe accostate (di cui ho scritto qui).

 

Strati incrociati di lastronature messe in forma per uno scudo a calotta sferica.

Proprio questo attributo degli scudi laminati (gli strati sovrapposti con la disposizione delle fibre incrociate) ha favorito l'equivoco frequente che li vede paragonati al compensato; sostanza che differisce da un laminato di lastronature proprio per la tecnica utilizzata nel recuperare la materia da impiegare.

Le sottili tavolette erano ottenute nell'antichità semplicemente segando con precisione la porzione utile da un travetto di legno massiccio, mentre i fogli che costituiscono gli strati del compensato (così come quelli del multistrato) sono oggi ottenuti “sfogliando” un tronco messo in rotazione.

Schematizzazione delle due differenti tecniche di approvvigionamento di materiale.
Questi ultimi risultano pertanto formati da fibre ormai prive della consistenza e della portanza caratteristica del materiale d'origine; ne consegue la formazione di pannelli molto meno elastici e più pesanti rispetto a quelli ottenuti con la prassi del passato.

 

Del resto, la presenza di scudi realizzati mediante lastronature in piena epoca medievale, come lo scudo del XIV secolo donato da Ronald S. Lauder al Met Museum (link al reperto), ci lascia intuire che in alcune zone d'Italia, la capacità, acquisita nell'antichità, di lavorare il legno in questo modo, potesse non essere del tutto persa, seppur il suo ricorso venisse circoscritto ad alcune tipologie di attrezzature difensive.

 

Le testimonianze dell'impiego di lastronature nel Rinascimento si fanno decisamente più frequenti, sia per lo sviluppo di sempre più sofisticati intarsi che vedono applicare la tecnica del disegno prospettico, al posto di semplici decori geometrici frequenti in epoca classica, sia per il loro utilizzo per la realizzazione di scudi e rotelle bombate.

 

Il lavoro che andrò descrivendo è stato sviluppato proprio per la ricostruzione di questi scudi a forma di calotta sferica.

In base a diversi reperti possiamo dedurre le misure più frequenti: il diametro che può variare dai 50 ai 70 centimetri, la larghezza delle singole doghe che varia da 60 ai 90 mm circa, il loro spessore che possiamo considerare compreso tra i 4 ed i 9 mm, il raggio di curvatura indicativamente di 40 cm o l'angolo di curvatura che si attesta su diversi modelli tra i 30 ed i 65 °.

Il peso finale, misurato su diversi reperti appartenenti ad un arco temporale tra il XV ed il XVII secolo, risulta variare tra il chilo e mezzo ed i tre chili e mezzo.

Il legni utilizzati erano sempre leggeri: il pioppo, il salice bianco, più raramente il fico.

 

Il primo passo è quindi stato quello di realizzare uno “stampo” a forma di calotta sferica avente il raggio di curvatura desiderato.

Ho scelto di utilizzare uno stampo concavo perché, in base alle esperienze passate, sono portato a credere che sia più funzionale al corretto posizionamento delle doghe rispetto ad uno stampo di forma convessa.

Per farlo, risparmiando materiale rispetto allo scavo di un blocco massiccio (anche di difficile reperimento nelle proporzioni occorrenti), ho utilizzato diversi strati di legno di pioppo. 

Le fasi della realizzazione dello stampo schematizzate. In A la situazione prima dello scavo della forma. In B, la situazione dopo l'asportazione del materiale in eccesso.
 

Vi ho segato delle aperture circolari di diametro tale che il punto di incollaggio tra i vari strati mi fungesse da linea di riferimento per la calotta che volevo ottenere.

Un foro centrale mi fungeva da riferimento per la profondità dello scavo che è stato realizzato grazie ad un'ascia dal profilo convesso.

La forma della calotta è quindi stata perfezionata con una pialla dotata di suola curva.

 

 

Una volta fatto lo stampo ho calcolato la forma profilata delle doghe, che, per accostarsi perfettamente sulla concavità appena finita, dovevano ricalcare la forma dei fusi che compongono la superficie sferica avente il raggio di curvatura scelto per lo stampo.

 

Ho realizzato una dima con la forma che mi ha permesso di tracciare il profilo di tutte le doghe, rastremate successivamente con una scure dolaora.

 

 

Le doghe così ottenute sono state successivamente piegate grazie all'immersione in acqua bollente; questo passaggio si è reso necessario dopo diverse prove fallimentari nelle quali non riuscivo ad ottenere una perfetta aderenza su tutta la superficie dei vari strati.

 

Doghe poste ad asciugare in forma, inluogo arieggiatto all'ombra.

Poste ad asciugare su apposite dime curve le doghe hanno così preso la forma congeniale alla realizzazione della calotta già prima di venire incollate nello stampo.

 

 

Una volta incollati i vari strati di legno ho sagomato la forma circolare dello scudo che era quindi pronto a ricevere il materiale di rivestimento che caratterizza i reperti originali.

 


 

Ho fatto particolare attenzione al posizionamento delle pelle sull'interno dello scudo, operazione che ha presentato diverse criticità già in altri lavori precedenti.

Volevo evitare che la pergamena si staccasse dalla superficie creando, col variare dell'umidità, delle bolle di distaccamento che avrebbero potuto compromettere o alterare l'elasticità e la solidità del manufatto.

Per questo, una volta bagnata l'ho messa in forma sulla superficie convessa dello scudo stesso; una volta asciutta è stata incollata all'interno.

Lo stesso procedimento mi ha permesso di collocare per la pelle esterna, prima di incollare la quale si è provveduto al posizionamento di cinghie e cuscino, fissati con chiodi ribattuti sul davanti.

 


 

La pelle esterna è stata poi ricoperta, dopo l'incollaggio, con tessuto di lino e cinque mani di gesso di Bologna.

 



La nostra ricostruzione, successivamente dipinta con i motivi presenti su una rotella conservata al Museo di Lucerna (Svizzera), ha il diametro di circa 60 cm e pesa 2,2 Kg.

 



Ecco il risultato finale:

 


 


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La mentalità dell'uomo moderno abbonda, spesso, di preconcetti che possono alterare significativamente la sua interpretazione su vari aspetti della nostra storia.

Tra i tanti, uno è sicuramente generato dalle esperienze post industriali che, a partire dalla fine del settecento, hanno sempre più fissato nel nostro immaginario l'idea di una sostanziale povertà, degli artigiani dei tempi passati.

 


Racconti, romanzi, fiabe e rappresentazioni pittoriche, nate e divulgate dall'ottocento in poi, ci hanno ripetutamente recitato un copione secondo il quale questa categoria si debba trovare in ristrettezze economiche ed in una continua, poetica quanto precaria, lotta con le avversità della vita.

Questa situazione può essere vera, certo, per tutti i periodi in cui la concorrenza dell'industria ha sottratto committenze agli artigiani che hanno dovuto, per sopravvivere, trincerarsi in provvidenziali nicchie di mercato.


Quando, però, le mani dei maestri delle varie arti, rappresentavano l'unica risorsa capace di dare risposte alle esigenze del mercato, quando l'industria ancora non era in grado di fornire in modo massiccio oggetti di ogni tipo prodotti in serie, le capacità della categoria degli artigiani costituivano l'unica soluzione possibile alla fame di beni di un mondo in continua crescita.

 

 


Non esistendo produzioni industriali, TUTTI gli oggetti necessari nel quotidiano venivano generati dall'intraprendenza e abilità degli artigiani; possiamo aspettarci pertanto che da questa operosità derivasse un certo benessere economico.

Credo che la visione, distorta, di sostanziale indigenza dell'artigiano, spesso si rifletta anche nella nostra percezione dei beni in suo possesso e in particolare della qualità e della quantità delle attrezzature di cui potesse disporre nella propria bottega, che spesso viene rappresentata in modo troppo frugale e spartano.

A cancellare definitivamente la visione di un falegname medievale povero, con pochi attrezzi arrugginiti appoggiati su un banco di lavoro fatiscente, concorrono sicuramente le fonti scritte, che, più di quanto possano fare le sole raffigurazioni artistiche (pittoriche o scultoree), ci testimoniano una realtà ben differente. 

 


Per quel che riguarda i possedimenti dei falegnami ho trovato interessanti gli inventari divulgati da Piera Ferraro attraverso due sue pubblicazioni: “l'Arte del legno a Padova. Norme, tecniche e opere dal Medioevi all'Età Moderna” e “La corporazione dei marangoni a Padova fra XIV e XIX secolo”.

Entrambi i testi sono stati pubblicati dalla casa editrice “il Prato” per la collana “Quaderni dell'Artigianato Padovano” curata da Giovanna Baldissin Molli.

 


Gli inventari a cui faccio riferimento sono tratti da atti notarili in cui si elencavano, per scopi ereditari, i possedimenti di falegnami deceduti.

Tali atti non sono certo di facile lettura e non risulta sempre possibile decifrarne con precisione tutto il cospicuo contenuto.

Per quel che riguarda i possedimenti del marangone Antonio Zilio della contrada di Torricelle del 1440, comunque, sono menzionati dettagliatamente più di duecento strumenti diversi.

Tra le molte voci di difficile comprensione, si possono trovare, in base alla mia interpretazione, i seguenti utensili:


  • una dozzina tra mazze, mazzuoli e martelli

  • una decina di scalpelli e sgorbie di vario tipo

  • quattro o cinque pietre ad olio per affilatura

  • sette tra scuri e asce di vario tipo

  • cinque squadre

  • un coltello a due manici

  • una sessantina di pialle di vario tipo

  • una decina tra lime e raspe

  • circa venticinque trivelle e trivellini di vario genere

  • cinque coltelli da intaglio

  • un piccone, badile e vanga, tenaglie, cesoie , etc.


Mentre tra gli strumenti lasciati in eredità da Bortolo intagliatore della contrada Volto dei Negri, in base ad un inventario del 1462, sembra sembra sia possibile distinguere:


  • otto seghe

  • una dozzina di pialle

  • quattro scuri

  • otto tra trivelle e trivellini

  • nove coltelli da intaglio

  • ventisei tra sgorbie e scalpelli

  • cinque squadre


Tutto questo oltre a diversi banchi d lavoro, recipienti e pentolini per scaldare colle di vario genere, strumenti per lucidatura e affilatura e così via.


Credo che questo materiale documentale rappresenti una buona base di partenza, per ripensare un'ipotetica ricostruzione di bottega! 

 



Se ti appassionano questi argomenti potrebbe interessarti anche “L'arte del legno tra Medioevo e Rinascimento”.


 

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