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Viduquestla

Anche quest'anno abbiamo partecipato, con la ricostruzione della bottega di marangoni, alla VI edizione della Festa Medievale di Varzi.

Visione d'insieme della ricostruzione della bottega.

Nonostante le previsioni meteo decisamente sfavorevoli (per fortuna in parte errate) il pubblico non è mancato e si è dimostrato anche quest'anno molto interessato all'esposizione di attrezzi ed alle spiegazioni relative all'evoluzione delle tecniche di lavoro.

L'ingresso dello spazio messo a nostra disposizione.

Da parte nostra abbiamo particolarmente gradito la calorosa accoglienza degli organizzatori e dei colleghi ricostruttori tutti, che ci hanno fatto sentire ospiti graditi...

Insomma s'è riso e scherzato coniugando le attività didattiche a momenti di relax ed ironia.

Ne siamo usciti veramente rigenerati ,,, non è forse questo lo spirito ed il senso di un'autentica Festa?

Ecco alcuni scatti delle dimostrazoni didattiche svolte nei due giorni!

Sbozzatura di una supeficie con una dolaora italiana.
Spigolatura e rifinitura dei bordi di una replica di cassa del XIII secolo.







Piallatura dei bordi di una cassa.

L'uso di una ricostruzione di scure da lato del XIV secolo utilizzata per sbozzare superfici.
Tornitura con tornio ad archetto.
Tornitura ad archetto con l'utilizzo di quattro arti.

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Sicuramente i segni ortogonali lasciati, sulle superfici lignee di reperti medievali, dalle lame di una sega (di cui si è parlato qui) sono quelli che sollevano più interrogativi, visto che, sono ancora dibattute diverse ipotesi riguardo al periodo in cui si iniziò ad utilizzare con profitto macchine idrauliche per questo genere di attività.

Alcune fonti pongono la loro esistenza già nel I secolo d.C., altre ne attestano l'esistenza nel IV secolo, altre ancora nel XII.
A prescindere da quella che può essere la realtà delle cose non si può evitare di prendere in considerazione immagini come queste in cui l'attività di segagione lungo vena viene svolta manualmente.

Alcuni esempi di segagione manuale rappresentati in epoca medievale: 
Jacopo Torriti, costruzione dell'arca, basilica superiore di San Francesco, Assisi. 
Mendelschen Hausbuch, Nuremberg, c. 1425, Amb 317 2°, Folio 39 recto.

Anche sulle tavole che compongono casse del XV secolo, del resto, risultano evidenti segni lasciati dai denti di una sega che ha lavorato con un'inclinazione compatibile con attività completamente manuali.

Immagine presa da una vendita d'asta on line.

Si tratta di un'attività faticosa che permette la realizzazione molto lenta di tavole, ma che potrebbe trovare il suo scopo nel permettere un risparmio di materiale che verrebbe altrimenti sprecato.
Si è dimostrato che personale qualificato e preparato nel compiere questa operazione è cinque volte più lento rispetto al lavoro svolto mediante fenditura con cunei.
Questa attività è faticosa e monotona, tale da rendere auspicabile un qualche tipo di automazione.

Nel caso si ottenga una tavola mediante fenditura di un tronco si avrebbero molte schegge di scarto causate dall'azione di affinamento della sezione triangolare dello spicchio di tronco che deve essere pareggiata per dar vita ad una tavola che avrà venature prevalentemente parallele alle superfici ottenute.

Le due tipologie di tavola a confronto.

Viceversa nel caso in cui le tavole siano ottenute mediante tagli di sega longitudinali, non si avrà molto spreco di materiale, ma le superfici così ottenute saranno attraversate da venature oblique che daranno sulle superfici principali il classico disegno a fiamma.

Una tavola fiammata.
 
Le tavole così ottenute avranno però altre caratteristiche che portano a deformazioni sistematiche che richiederanno, per il loro utilizzo, di ricorrere ad alcuni espedienti.
Le fiamme visibili sulle superfici sono, infatti, dovute alla sostanziale conicità del fusto di partenza e sono formate da un taglio longitudinale dei coni concentrici composti dagli strati di accrescimento della pianta.

La diminuzione di volume causata dalla sostanziale perdita di umidità alla quale il legno è soggetto nel tempo è molto maggiore lungo la direzione tangenziale, rispetto a quella radiale di tali strati e questo crea una trazione parallela alle porzioni circolari che tendono a deformare le tavole imbarcandole.

Le deformazioni cui sono soggette le tavole.

Per questo motivo sarà possibile per ogni tavola distinguere un dritto (per definizione la superficie che si deforma creando una convessità) ed un rovescio (quella che si deforma originando una concavità).
Dato che nel legno di durame, presente nella zona centrale del tronco c'è meno linfa, in quanto essa tende a scorrere nelle sezioni periferiche, più giovani rispetto a quelle centrali, si avrà un calo di dimensioni, maggiore tanto più ci si avvicina alle estremità del tronco, lungo i bordi della tavola, quindi.


Alcune possibili criticità causate dal ritiro tangenziale cui il legno è soggetto.
Tutte queste particolarità creano una serie di circostanze che, richiedono alcuni accorgimenti per dare stabilità ai manufatti nel tempo.
Si tratta in sostanza delle regole grammaticali a cui si è accennato all'inizio del discorso di questa serie di post (leggi qui).

Nell'assemblare ed incollare le tavole per ottenere delle pannellature, per esempio, occorrerà per evitare i problemi riassunti nello schema appena riportato, giuntare durame (la parte interna) del tronco, con altro durame e alburno (la parte più periferica) con altro alburno.
Per di più, incollando le tavole in modo che sullo stesso lato si alternino il dritto e il rovescio delle tavole si otterrà una sostanziale continuità negli strati di accrescimento nel punto di incollatura, ottenendo una compensazione delle deformazione tangenziale che con il calare dell'umidità cui il legno è soggetto, farà perdere ortogonalità alla sezione incollata.


Vista frontale di un punto di incollaggio in cui la deformazione tangenziale si andrà a compensare.
Questo eviterà frizioni e scollamenti dovuti al diverso comportamento del legno nel tempo.

Se pratichiamo un taglio centrale, longitudinalmente, ad una tavola fiammata, e ruotiamo una delle due metà così ottenute come illustrato nella figura sottostante dalle frecce azzurre, prima di ri-assemblare le due parti, possiamo notare che le direzioni di lavoro, rappresentate dalle frecce rosse restano le medesime, ma otteniamo delle superfici in cui le fibre non disegnano più la classica forma fiammata ma corrono dritte in diagonale da un'estremità all'altra della superficie, disegnando al più dei flessi paralleli tra loro.

Il modo corretto di assemblare in larghezza le tavole fiammate
Così facendo si possono assemblare i pezzi in modo tale da avere continuità anche sugli anelli visibili in testa, che disegneranno delle forme flesse correndo da una superficie a quella opposta.
La stessa continuità ottenuta lungo le fibre di tutte le superfici della tavola, in questo caso, si preserva anche all'interno, mantenendo una continuità anche delle direzioni di lavoro. 

 
Una pannellatura ottenuta alternando dritto e rovescio di semitavole tagliate longitudinalmente.
Queste semplici regole, per arrivare alle quali occorre confrontarsi con la lavorazione manuale della materia, ragionando su quanto si sta compiendo, oggi, non sembrano più essere prese in considerazione, ma erano al contrario rispettate dalle maestranze italiane di epoca medievale.
Se ne trovano, per esempio, distinte tracce nell'assemblaggio delle pannellature utilizzate come supporto alle opere pittoriche italiane del XIII secolo.
I supporti lignei utilizzati per capolavori che avrebbero dovuto superare il rigore dei secoli venivano realizzate da lignaioli, operai altamente qualificati ai quali si commissionava il lavoro.
Si tratta, insomma, di una serie di competenze, quelle di queste maestranze medievali, che della conoscenza del legno avevano fatto un professione specializzata, che non si sono evolute con l'avanzare del tempo, ma che al contrario, spesse volte, hanno subito un'involuzione fino a rendere spesso necessario soppiantare l'utilizzo del legno, considerato ormai materiale troppo problematico.

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Nell'ultimo post dedicato all'argomento (leggi qui) si è parlato di attrezzi adatti alla rifinitura di superfici.
Per capire meglio cosa si intenda con questa azione di ritocco ed andare avanti con l'analisi delle tecniche di controllo sulla distanza di fenditura occorre iniziare a ragionare tridimensionalmente.
Lo schema bidimensionale raffigurante i taglienti in azione che abbiamo visto nel post iniziale dedicato all'argomento (qui), infatti, non tiene conto degli aspetti derivanti dalla profondità e della conseguente larghezza del legno in lavorazione.
Se il pezzo risulta più stretto della lama che agisce sul legno tutto si svolge come negli esempi ideali bidimensionali già visti.
Quando viceversa il legno in lavorazione è più largo rispetto al filo della lama in uso, nascono delle criticità dovute alla continuità del materiale fuori dagli estremi dell'utensile che non permettono un corretto (e controllato) distaccamento del truciolo.

Nel primo esempio si ha un compiuto distaccamento di materiale, nel secondo le linee rosse rappresentano le criticità che produrranno perdita di controllo sull'azione dell'utensile.

Per questo motivo si iniziò a ricorrere ad attrezzi caratterizzati dal tagliente curvo che permettevano il distacco compiuto di porzioni di legno, in modo netto e preciso.
Si otteneva così una superficie sbozzata, delineata in modo non uniforme che permetteva però ad un utensile con lama dritta di pareggiare le asperità lavorando a cavallo delle sfaccettature, staccando compiutamente trucioli senza problemi.

Un filo curvo, rappresentato dalla linea rossa nell'esempio di sinistra permette il completo distaccamento del materiale a patto che le etremità risultino sempre affioranti. Successivamente si può perfezionare la superficie utilizzando una lama dritta.

La tecnica che prevede l'utilizzo accoppiato di questi due utensili, uno col filo curvo e l'altro col filo dritto (o con la medesima forma che si vuol far assumere alla superficie in lavorazione) è basilare.
Spesso le superfici non in vista dei manufatti così eseguiti risultano meno rifinite o lasciate appena abbozzate ed in molti casi, quindi, vi si possono leggere come segni distintivi le impronte lasciate dagli utensili utilizzati per i vari interventi.
La lettura di questi segni può risultare fondamentale per dedurre il tipo di lavoro che il materiale ha subito.

In particolare risulta utile tenere presente che le lame curve possono essere di due tipi: possono avere la curvatura del filo posta su una superficie piana parallela all'asse principale dell'utensile oppure possono averlo curvato lungo una superficie ortogonale all'asse dell'utensile.

Esempi di curvatura realizzata sul piano dell'asse dell'utensile o su quello perpendicolare all'asse.

Nel primo caso è proprio l'angolo di lavoro e l'inclinazione della lama messa all'opera che garantiscono che le estremità del filo del tagliente risultino sempre affioranti dalla superficie del legno permettendo un compiuto distacco dei trucioli.

In entrambi i casi, lo strumento va accompagnato nel suo movimento, con un andamento che garantisca lo scorrimento omogeneo del filo senza produzione di leve che genererebbero distanza di fenditura e conseguente perdita di controllo sull'azione della lama.
Le due tipologie di attrezzi conseguentemente lavoreranno giocoforza con due movimenti completamente differenti, lasciando traccia di questo scorrimento sul legno.

Superfici lavorate con attrezzi differenti. Di seguito la descrizione.

Nell'immagine si possono vedere alcune superfici realizzate con attrezzi differenti.
Nel primo caso si distinguono i segni lasciati da una sega a movimenti verticali alternati, che lascia solchi compatibili con quelli delle segherie idrauliche del XV secolo.
Nel secondo caso si possono vedere le incisioni continue lasciate da uno sbozzino, una sorta di pialla che lavora un po' in profondità grazie ad una lama dal profilo curvo.
Nel terzo caso i solchi, più intervallati e meno continui sono quelli prodotti da una sgorbia con lama curva.
Nel quarto caso abbiamo i segni lasciati da una scure da squadro, con lavoro eseguito lungo vena e traverso vena.
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L'usanza di saldare un acciaio più duro ad una base di acciaio più duttile ampiamente utilizzata già in epoca romana (di cui ho parlato qui), nasceva per motivi di praticità rispetto alla forgiatura di grandi quantità di materiale ed era praticata anche sui “ferri” delle pialle.
Nel caso delle pialle inoltre occorre considerare che si tratta di utensili appositamente pensati per garantire maggior controllo sulla distanza di fenditura “d”, analizzata nei due esempi illustrati dal post iniziale dedicato a questi temi (leggi qui).

Denominazione delle varie parti che compongono una pialla
Se le pialle ad una occhiata superficiale, infatti, possono sembrare null'altro che delle lame taglienti inserite di traverso in supporti tradizionalmente realizzati in legno, esse sono molto più complesse.
La pialla è formata da un corpo detto ceppo nel quale viene realizzata una feritoia, che consente di fissare, alla profondità voluta, una lama tagliente detta ferro.
Il funzionamento, però, non è semplicemente dovuto all'azione della suola che guida il ferro in un tragitto rettilineo, impedendone eventuali oscillazioni, lungo la superficie da lavorare, ma esistono altri processi, alla base della meccanica che l'attrezzo mette in atto.
 
Trucioli di pialla in cui è possibile notare il susseguirsi di piccole fratture trasversali
Durante l'operazione di sollevamento del truciolo, esso viene spezzato grazie all'azione del ferro che, dopo averlo staccata col filo del tagliente, lo spinge col proprio dorso in avanti, comprimendolo verso l'interno della bocca il cui spigolo funge, in questo caso, da limitatore di truciolo.
Lo spezzettamento della venatura lignea che compone il truciolo è essenziale nell'utilizzo dell'utensile, perché limita la continuità della fibra asportata, consentendo lungo il movimento di avanzamento dell'attrezzo, un costante “riposizionamento” della lama, per aumentare il controllo dell'azione dell'artigiano.

Schema raffigurante l'azione della pialla volta a diminuire la distanza di fenditura

Per questo motivo, per il corretto utilizzo della pialla, la bocca deve avere un profilo anteriore netto e ben delineato; questo spigolo di pressione, per quanto soggetto ad usura deve sempre essere vivo, e il posizionamento del ferro deve avere una profondità proporzionale alla larghezza della fessura stessa.
Vedendo schematicamente l'azione di una pialla rappresentata in sezione, del resto, risulta evidente come la pressione stessa della suola finisca per comprimere la porzione di legno anteriore alla lama, permettendo di limitare il propagarsi di fenditure troppo lunghe.

Due ritrovamenti di pialle di epoca romana

La prima traccia effettiva della presenza di pialle, in Europa, risale al primo secolo, ed è costituita da ritrovamenti nella città di Pompei sepolta dalla lava nell'eruzione vesuviana del 79 d. C.
In effetti esistono diversi ritrovamenti di pialle di epoca romana che attestano l'utilizzo storico di questo genere di attrezzi: secondo alcuni studiosi esse potevano essere realizzate anche con il ceppo completamente di legno, anche se prevalgono riscontri di attrezzi fatti in legno e metallo, con piastre in bronzo poste a rinforzo della suola (espediente utilissimo a rinforzare lo spigolo di pressione della bocca) e fissate al legno tramite borchie.
Il più completo degli esemplari giunti fino a noi (che prende il nome dalla località dove è stato rinvenuto nel 2000: Goodmanham nello Yorkshire) misura 33 cm di lunghezza ed ha una lama posta in sede con un angolo d'incidenza di 65 gradi.
Esso è databile dal II al IV secolo d.C. e, sebbene il particolare corpo realizzato in avorio lo renda piuttosto particolare e faccia pensare ad un proprietario agiato, per le sue particolarità tecniche, risulta del tutto conforme ai canoni della maggior parte delle pialle romane rinvenute.
Si tratta di caratteristiche che fanno ipotizzare ad un uso prevalente per scopi di rifinitura su legni abbastanza duri.
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Una seconda variabile che permette il controllo della propria azione durante la lavorazione manuale del legno (leggi qui la premessa) è data dall'affilatura dell'utensile che deve essere quanto più precisa possibile.
Risulta importante, da questo punto di vista, sia il materiale che compone la lama che la tecnica usata per affilare.
La molatura non deve essere considerata una pratica di manutenzione straordinaria nei confronti dei taglienti, ma è, al contrario, un'operazione fondamentale che deve potersi svolgere ripetutamente durante il periodo di utilizzo dei vari arnesi, il cui filo, per quanto resistente, tende a perdere d'efficacia, usurandosi con una certa frequenza durante l'uso.
Per arrotare si usano pietre con grana diversificata in base al grado precisione che ci si aspetta dall'utensile in questione.
I blocchetti appositamente realizzati per questo scopo necessitano di essere lubrificati, non tanto per scopi di raffreddamento, quanto piuttosto per evitare che la sottile limatura di metallo, prodotta per sfregamento, finisca per depositarsi nelle porosità della pietra, facendo perdere d'efficacia la superficie levigante.

Operazione di affilatura di una testa di scure
Come lubrificante si può usare sia olio che acqua a seconda del tipo di pietra che si utilizza.
Bastano poche gocce poste sulla superficie piana di pietra sulla quale si andrà a strofinare ripetutamente, con l'inclinazione voluta, la lama da affilare.
Dopo l'uso la pietra va ripulita e conservata in modo da preservarne le superfici da polvere ed impurità.
In base a quanto riportato in inventari dei possedimenti dei falegnami del XV secolo, "lapis ab oleo" o "lapidibus ab oleo" erano già utilizzate nelle botteghe di maestranze dell'epoca.

La qualità del metallo di cui è fatta la lama dell'attrezzo, del resto, non è solo indispensabile a ridurre l'usura del filo (diminuendo così la frequenza con cui si rende necessario ri-affilare), ma concorre, come già accennato, alla precisione del filo ottenibile con la molatura.

La storia della falegnameria è composta da piccole innovazioni adattive, tese a migliorare o ricombinare pratiche già conosciute e, se risulta evidente che vi furono interazioni tra diverse culture, queste sembrerebbero limitate a quelle poche novità tecnologiche veramente rivoluzionarie, tali da portare mutamenti radicali rispetto alle prassi del passato.
La tecnica di lavorazione dei metalli che compongono gli arnesi è una di queste. 
Essa ebbe evidentemente un'importanza tale da farla godere di ampia divulgazione dato il grande vantaggio che si poteva ottenere da attrezzi meno soggetti ad usura e capaci di lavorazioni più precise.

In base alle analisi compiute su alcuni reperti storici utilizzati diversi secoli prima dell'avvento di Cristo, risulta evidente che già all'epoca, in Italia centrale, per quel che riguarda utensili da taglio o lame utilizzate per scopi bellici, si usasse riportare sul filo dell'acciaio più ricco di carbonio.
Possiamo quindi desumere che in epoca medievale la tecnica raffigurata che permette di fissare per bollitura un acciaio “migliore”, forgiato in fucina, fosse già diffusa su tutto il territorio europeo.

La tecnica utilizzata per la realizzazione di una testa di scure. Il materiale grezza (in A) viene schiacciato fino ad ottenere una sottile lemina simmetrica della forma desiderata (B). La lamina viene successivamente piegata a metà e viene aggiunto l'acciao che compone il filo (C), il tutto viene poi saldato per bolltura per ottenere l'attrezzo finito (in D)

Questa tecnica permetteva un notevole risparmio energetico, richiedendo lunghi processi di lavorazione in forgia solo per una piccola quantità di materiale rispetto a quello che compone l'intero utensile e dava anche la garanzia di realizzare lame meno fragili, dato che l'alta percentuale di carbonio, che rende l'acciaio più rigido e meno flessibile, si focalizzava solo sul filo dell'utensile.
I diversi passaggi di lavorazione che permettevano di assemblare teste di scuri, asce o accette si può vedere rappresentata in figura.

A parte l'usanza di riportare un piccolo incudine sulla nuca dell'utensile, introdotta dal 1700 in poi, questa tecnica di lavorazione è rimasta invariata per diversi secoli e viene utilizzata ancora oggi.

La lama di una scure in cui si possono vedere i segni di saldatura della lamina ripiegata e della saldatura di attacco dell'incudine sulla nuca.

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